Dal giornale Luna Nuova la storia di Cristina, Volontaria di Croce Rossa Italiana – Comitato di Susa, di professione Infermiera, che per due settimane ha prestato servizio a #Bergamo nell’ambito dell’emergenza #Covid19.
“Il nostro Paese non è fatto soltanto di anni di smantellamento della sanità pubblica pagati a caro prezzo nelle settimane scorse. È costruito anche su tanti, piccoli eppure grandi, silenziosi eppure capaci di darci rumorosamente coraggio, gesti quotidiani che ci fanno pensare che non tutto sia perduto, che alla fine saprà risollevarsi dal terribile sbandamento a cui è andato incontro in questi ultimi due mesi. Gesti che hanno un nome e un cognome. Spesso femminile quando si parla di sanità.
Anche in valle di Susa. Cristina Borello, 50 anni, segusina, due figli, Eric e Nicole, 19 e 14 anni, di professione fa l’infermiera. Lo ha fatto per una vita in un settore, quello pediatrico, in cui la morte ti sfiora soltanto, a volte devi anche affrontarla, è vero, ma non è all’ordine del giorno, non è nascosta dietro ogni angolo, dietro ogni respiro difficoltoso di un paziente. Prima nel reparto materno infantile di Susa, uno dei tanti sacrificati sul piatto del bilancio regionale, poi, da quattro anni a questa parte, nel consultorio pediatrico, ad Avigliana e Condove. Un lavoro fatto con passione. E quando la passione ti chiama non puoi dire di no. Così un giorno Cristina ha deciso che a 50 anni dovesse rimettersi in gioco, ma sul serio, andando al fronte, in prima linea, con la divisa della Croce Rossa. Luogo scelto, Bergamo, la città e la provincia che hanno pagato, di gran lunga, il più alto tributo di contagiati e, soprattutto, deceduti al Covid-19. Una scelta non facile, sia dal punto professionale, che burocratico, che familiare. «Non è facile prendere e partire quando hai due figli, quando hai dei genitori anziani – ammette Cristina con la voce rotta dall’emozione alla fine di uno dei turni massacranti – ma quando uno sceglie questo lavoro sa a cosa può andare incontro e non è giusto sottrarsi al proprio dovere anche di fronte ad un pericolo evidente».
Così la scorsa settimana Cristina è partita alla volta della Lombardia. Destinazione uno dei tanti reparti Covid dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Benvenuta all’inferno. «In realtà è una struttura molto bella, moderna ed efficiente – sottolinea – e l’emergenza vissuta fra marzo ed inizio aprile si sta poco per volta affievolendo per fortuna». Sì, ma dietro quella facciata incoraggiante c’è stata e c’è ancora tanta sofferenza. «Sì, qui l’inferno si è veramente materializzato – ammette – basta sentire i racconti dei miei nuovi colleghi, che in alcuni frangenti sono stati costretti a scegliere a chi dare una possibilità e a chi no, per farsene un’idea ben precisa».
Cristina è stata assegnata ad un reparto Covid, dove sono ricoverati i pazienti usciti dalla terapia intensiva e che sono in via di guarigione, ma anche coloro che non possono farcela e che sono lì in attesa del loro destino segnato. «Queste pratiche di lavoro non erano proprio il mio pane quotidiano – precisa – ma c’è sempre tempo per imparare, colleghe e colleghi mi hanno fatto sentire a casa e mi hanno insegnato molto, con pazienza; è un’esperienza dura, ma sono contenta di averla fatta e fra un po’ di tempo, una volta metabolizzata, sono sicura che la ricorderò con piacere».
Un’esperienza dura in corsia, dove la vita è divisa fra percorso “pulito” e quello “sporco”, inframezzati da una sottolinea linea rossa sul pavimento, dove ti consigliano di bere il meno possibile prima e durante il turno, così da non avere esigenze fisiologiche e non doverti togliere e rimettere le protezioni, dove ogni tanto ti puoi sedere, stremata, in quel corridoio che sembra tanto quello di una stazione ferroviaria, con l’orologio che conta le tue sette ore di turno diurno e le dieci di quello notturno.
Ma durissima la sera, in quell’albergo vicino all’autostrada, dove la prima cosa che fai, prima ancora di pensare a riposarti, è quella telefonata che ti riconnette con casa. Vitale. «Io e un medico siamo gli unici del reparto che abbiamo dei figli – spiega Cristina – tutte le mie colleghe sono molto più giovani di me e mi chiamano mamma; è dura avere dei figli a casa; si organizzano certo, ma patiscono: quello che soffre di più è Eric, che ha paura per me, Nicole invece, pur sentendo la mia mancanza, condivide la mia scelta e appena possibile mi ha rivelato che vorrà fare la volontaria in Croce Rossa». Un turno da 15 giorni, poi le è stato proposto di fermarsi altre due settimane. «Non so se lo farò, devo ancora decidere».
Da una parte la famiglia, gli affetti di una vita, la normalità di un lavoro fatto con passione. Dall’altra il volto sorridente dei due “nonni” che pure dietro la mascherina, gli occhiali e la visiera Cristina ha un po’ adottato. Una scelta che nessuno di noi vorrebbe essere costretto a fare. Ma quella foto con i suoi “nonni” Cristina la metterà, una volta tornata a casa, nel cassetto dei ricordi più belli. Ed in quelli di un Paese che pur tra i suoi limiti e le sue contraddizioni, che il virus ha soltanto reso più evidenti, può contare ancora su centinaia, migliaia di Cristina.”